Qualche giorno fa ho letto un ottimo articolo di Scalfari su Repubblica che parlava del peccato originale. Ora nel libro della Genesi si narra la cacciata dell'uomo dal paradiso terrestre: come dice giustamente Scalfari, si tratta di una favola sacra, in quanto rappresenta il paradigma della caduta, presente presso tutti i popoli e tutte le culture. La civiltà greca non fa eccezione: nelle Opere e i Giorni di Esiodo, scritto nel VI sec., compare proprio il mito della razza, secondo cui l'uomo sarebbe decaduto da una beata condizione primordiale a alla fatica e al lavoro per sopravvivere. Lo stesso Kant, filosofo tedesco di Koninsberg vissuto nella seconda metà del XVIII sec., afferma (non conosco l'originale in tedesco, perciò riporto soltanto la frase in italiano): " L'umanità è un legno storto e nessuno lo potrà raddrizzare". Anche Rousseau, noto filosofo illuminista, nel suo Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza riprende il paradigma della caduta per sostenere la tesi della bontà intrinseca dell'uomo allo stato di natura, finito a causa dell'introduzione della proprietà.
Il secondo passaggio fondamentale nell'articolo di Scalfari consiste nel definire il peccato originale come il momento in cui l'uomo prende coscienza di sé, ossia la capacità di pensare sé stesso e l'Essere, e quindi la responsabilità di sé. Grazie al pensiero ci distinguiamo dagli animali e in qualche modo anche dallo stato infatile, in cui questa responsabilità non è ben accentuata. Già Sant'Agostino afferma che questa nostra facoltà rappresenta la scintilla, la piccola luce, il segno vivente della nostra condizione di reietti da una vera patria fuori dal mondo conosciuto. Non deve quindi stupire che nel Vangelo Gesù faccia costante riferimento ai bambini come esempio da seguire, proprio perchè nella loro innocenza e inconsapevolezza sono mondi dal peccato originale. "Sinite pueros ad me venire" oppure " Se non ritornerete come bambini non entrerete mai nel Regno dei Cieli", Egli afferma. Non è un caso che nel Settimo Sigillo, capolavoro assoluto di Ingmar Bergman, il personaggio che ha le visioni siano proprio quello più semplice, che non si fa mai domande. Del resto, lo stesso anticlericale Leopardi riconosceva all'età infantile questa caratteristica peculiare di inconsapevolezza, che secondo lui la preservava dall'infelicità.
Per concludere un riferimento al film Into the Wild (potrei scrivere un post intero sul suo valore e significato), che consiglio caldamente a tutti di vedere: ad un certo punto il protagonista, fattosi coraggio per attraversare le rapide del Colorado (mi pare), dice che a volte è solo l'istinto che deve guidare le nostre scelte; è duro dirlo ma è proprio così, altrimenti saremo sempre prigionieri della nostra ragione. Forse la fede non è che istinto, chi lo sa.
Termino con un quesito: visto che le due posizioni si pongono su due piani completamente diversi (paradigma socio-culturale da un lato, verità scientifica dall'altro), che senso ha continuare un dibattito fra evoluzionismo e creazionismo?