Recentemente, così per caso scartabellando fra i miei libri, mi è capitato fra le mani il testo
Le petit prince (Il piccolo principe) pubblicato a New York nel 1943. L'autore, il nobile francese
Antoine de Saint-Exupery, è stato un grandissimo aviatore civile e militare. Grazie alla sua abilità a 26 anni diventa il pilota di linea della mitica compagnia Latecoere, l'antenata dell'Air France che assicurava il primo collegamento postale aereo da Tolosa a Dakar. Allo scoppio della seconda guerra mondiale riesce a farsi arruolare nell'areonautica militare; compie diverse imprese pericolose prima di essere abbattuto, nel luglio del 1944, da un aereo tedesco al largo delle coste della Corsica (per ulteriori dettagli autobiografici ho fatto il link).
Questo libro, peraltro molto noto, viene spesso letto in età infantile: l'immagine di questo ragazzino dai capelli d'oro, misterioso e vago, venuto da chissà dove nello spazio, incanta e affascina i bambini. Così, a 19 anni compiuti, ho deciso di rileggerlo. Mi ha sconvolto come, con un impianto narrativo apparentemente semplice e puerile (niente di più fallace!), l'autore riesca a tracciare un quadro tanto esaustivo quanto moderno sull'esistenza umana. La figura del principe innanzitutto: egli continuamente nel suo viaggio, dopo aver lasciato il pianeta d'origine, in ogni posto che va interroga i personaggi che incontra e non smette mai di fare una domanda se non prima ha ottenuto una risposta. Da un lato quindi emerge il paradigma della curiositas umana, esemplificato dal polutropos Ulisse nell'Odissea; d'altro canto questa insistenza nel conoscere la risposta di un quesito è segno inestinguibile del sacro culto della verità a cui lo stesso Nietzche, contro tutti e tutto ciò che rappresentava la tradizione, dice di avere attinto.
Il piccolo principe è capace di guardare il mondo con disincanto, senza gli idola baconiani che affliggono i personaggi da lui incontrati: egli, di fronte alla frenesia e ai grandi progetti degli adulti, contrappone l' inestenguibile amore per la sua rosa o l'amicizia con una volpe, segno del mistero che si cela nel piccolo, nel banale. Già il poeta romantico inglese William Blake nella sua poesia Infant joy aveva sperimentato la "sacralità" del pensiero del bambino. D'altronde credo che la filosofia agisca allo stesso modo: la difficoltà vera sta nello spiegare termini come cosa, fatto; filosofare significa in primo luogo, e Spinoza lo sapeva benissimo, indagare con gli occhi della mente senza paura,come un bambino che sa che "l'essenziale è invisibile agli occhi".
La fine del protagonista, così chiara e misteriosa al tempo stesso, diventa il simbolo di un'infanzia fuggita via troppo presto per non lasciare rimpianti: ad un tratto sparisce, così senza preavviso, e arriva il mondo degli adulti, dove tutto
deve avere un senso, deve essere capito.